La COP30 ha fatto anche cose buone

Il Giusto Clima   Novità da ènostra   
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1 Dicembre 2025

Le manifestazioni, la presenza dei popoli indigeni, la Colombia che propone una Conferenza per uscire dalle fossili: le cose buone che ci portiamo a casa dalla COP30

Una protesta indigena fuori dalla COP30 a Belèm – Photo © UN Climate Change – Zô Guimarães

Si è parlato di un “grande flop”, ma dalla COP30 possiamo anche trarre importanti segnali positivi. Ne ha discusso di ritorno da Belèm Lorenzo Tecleme, giornalista freelance che collabora con Il Giusto Clima, con Novella Gianfranceschi, giornalista freelance, inviata de Il Manifesto.

A COP30 si è parlato molto di un Paese che di solito non è fra i grandi del Pianeta: la Colombia. Come mai?

Sì, la Colombia è emersa come uno dei leader di questa COP30, almeno tra i paesi del Sud globale e del Sud America. È un caso interessante perché la Colombia è ancora molto dipendente dai combustibili fossili, è uno dei produttori principali di carbone, ma ha cercato in tutti i modi di spingere a favore di un cronoprogramma di uscita dalle fonti fossili in modo giusto e ordinato.

Il governo di Gustavo Petro evidentemente ha capito che per fare una transizione servono finanziamenti e meccanismi che possano guidare i paesi più vulnerabili come la Colombia e i paesi del Sud globale per evitare impatti negativi sulla popolazione.

Il governo colombiano ha guidato il gruppo degli ambiziosi alla COP30, ma non è andata bene. La famosa roadmap di uscita dalle fonti fossili non è stata inserita nel documento finale. Che cosa ha fatto allora la Colombia?

La proposta della Colombia era stata appoggiata da più di 80 paesi ed è stata poi fatta propria dalla presidenza brasiliana della COP, ma alla fine non è rientrata nell’accordo di finale.

È stata messa a margine come un progetto laterale extra COP: quindi la Colombia insieme ai Paesi Bassi ospiterà la prima conferenza internazionale per la giusta transizione dalle fonti fossili, in programma nella città di Santa Marta in Colombia il 28 e il 29 aprile del 2026.

È molto difficile prevedere il futuro, ma tu cosa ti aspetti da questa conferenza?

Credo che questo vertice possa servire a mettere nero su bianco alcuni punti su cui poi si potrà negoziare alle future COP. L’idea è anche di far arrivare i Paesi promotori di un’uscita dalle fonti fossili più preparati e determinanti alle prossime conferenze sul clima.

Alla COP30 la roadmap e la finanza per l’adattamento hanno avuto esiti deludenti. C’è però un aspetto laterale del documento finale, di cui si è parlato poco, che invece ha lasciato soddisfatte le ONG e la società civile: la parte sulla Just Transition. Ci puoi dire due parole su questo?

Sì, forse questo è stato uno dei risultati che ha messo d’accordo maggiormente i paesi firmatari della Convenzione Quadro sul Cambiamento Climatico e ha reso contente anche molte organizzazioni che si occupano di giustizia climatica.

Le nazioni hanno concordato un nuovo meccanismo globale per garantire che il passaggio verso l’energia pulita avvenga in modo equo, inclusivo e capace di proteggere lavoratori e lavoratrici.

Parliamo invece di proteste: dopo tre anni di COP in paesi autoritari si è tornati in un paese democratico e abbiamo scoperto che la notizia della morte del movimento per il clima era fortemente esagerata. Che cos’è successo fuori dalla COP30 di Belèm?

Finalmente abbiamo assistito a un corteo al di fuori dello spazio ONU. Negli ultimi tre anni le COP si sono svolte in paesi scarsamente e fintamente democratici, quindi le uniche proteste che potessero spingere l’asticella dei negoziati più in alto erano avvenute all’interno dei padiglioni ONU.

Quest’anno a Belém in Brasile circa 50.000 persone sono scese in piazza e hanno manifestato: è stato un momento particolarmente significativo, uno dei momenti migliori che ci portiamo a casa da questa COP30.

Le varie associazioni, attivisti e attiviste hanno chiesto a gran voce l’uscita dal sistema energetico basato sulle fonti fossili. È stato celebrato il funerale delle fonti fossili – petrolio, carbone e gas. C’erano tantissimi movimenti sia del Sud globale che del Nord. Finalmente l’attivismo ambientale è tornato in prima linea dopo un periodo abbastanza sottotono.

Fra le cose notevoli è che erano manifestazioni guidate dai popoli indigeni.

Sì, le popolazioni indigene del Sud America, solitamente presenti solo marginalmente alle conferenze globali, hanno utilizzato questa COP per farsi sentire. Hanno ottenuto dal Brasile il riconoscimento di altri 10 territori indigeni.

Ho incontrato diverse associazioni di indigeni, ma anche persone che vivono negli insediamenti informali delle favelas. Persone che di solito restano ai margini delle conferenze globali sul cambiamento climatico sono riuscite a far sentire la loro voce.

Domanda conclusiva, nell’insieme con che umore hai lasciato Belèm?

Forse le ambizioni inizialmente erano molto alte perché si era parlato appunto di questa roadmap per uscire dalle fossili che poi non si è fatta. Quindi c’è molto amaro in bocca per l’accordo di Belèm.

Poca leadership da parte dell’Unione Europea, frammentata al suo interno. L’assenza degli Stati Uniti in qualche modo ha pesato perché ci si aspettava poi una leadership tutta in mano al Brasile e alla Cina che però non sono state in grado di fare fronte comune.

Quindi, tanti aspetti negativi. Ovviamente le proteste e lo stesso fatto di aver parlato in qualche modo di combustibili fossili, ce li portiamo a casa come risultati positivi. Però la strada è ancora lunga.

Questo testo è tratto dall’intervista andata in onda nella puntata del 26 novembre de Il Giusto Clima su Radio Popolare