Capitalismo carnivoro: intervista Francesca Grazioli
;Un viaggio attraverso l’industria della carne, settore responsabile del 37% delle emissioni globali di metano e principale causa indiretta di deforestazione.
“Energivora e difficile da conservare, la carne è da sempre il cibo privilegiato dei re e dei potenti”, afferma Francesca Grazioli, ricercatrice presso il Bioversity International e autrice di Capitalismo carnivoro. Allevamenti intensivi, carni sintetiche e il futuro del mondo (Il Saggiatore 2022). Dal Dopoguerra in poi l’industrializzazione ha trasformato la carne da lusso per pochi a alimento accessibile a tutti. Ma a che prezzo?
Il viaggio di Francesca Grazioli attraverso l’industria della carne è un percorso alla scoperta di come l’efficienza e l’automatismo siano quotidianamente applicati a corpi vivi, seguendo i principi della massimizzazione della resa e della minimizzazione dei costi. Il saggio esamina il modo in cui l’industria della carne scarica enormi esternalità negative su società, ambiente e clima: responsabile del 37% delle emissioni di metano globali, è anche la primaria causa di deforestazione, visto che il 90% della produzione di soia nel mondo è destinato a mangimi animali. Senza contare le pessime condizioni dei lavoratori del settore, esposti a forti rischi sulla loro salute fisica e mentale.
Ma Capitalismo carnivoro è anche una riflessione sugli aspetti culturali nascosti dietro il consumo di carne, che in occidente simboleggia la virilità e la capacità dell’uomo di dominare l’altro e di distinguersi dagli altri animali. Gerarchie sociali e stereotipi che è importante svelare per indirizzarci verso una società sostenibile e libera da machismo, sessismo e razzismo.
Francesca Grazioli, nel libro racconti che Ford a inizio ‘900 si è ispirato a un macello di Chicago per elaborare il suo modello industriale basato sulla catena di montaggio. Come si è trasformata la produzione di carne con l’avvento dell’industria?
Nel momento in cui il sistema intensivo di produzione capitalista si è innestato nel mondo della carne, abbiamo assistito alla creazione di un ibrido particolarmente problematico, per il benessere degli animali, dei lavoratori e dell’ambiente. Sui corpi vivi degli animali sono applicati i “comandamenti” del sistema di produzione intensiva. In primis, la massimizzazione della resa, che implica che gli animali debbano essere standardizzati e con lo stesso corredo genetico, debbano crescere sempre allo stesso ritmo ed essere tanti nello spazio più ristretto possibile.
Poi la minimizzazione dei costi, secondo la quale devono prendere massa nel minor tempo possibile: l’obiettivo è farli passare dalla culla alla tomba il più in fretta possibile, perché quando sono vivi sono un costo, diventando profitto solo quando li vendi. E da lì l’anomalia per cui un pollo, che prima dell’avvento dell’industria della carne poteva vivere anche qualche mese prima di essere macellato (in natura vivrebbe 7-8 anni, ndr), ora vive dalle quattro alle cinque settimane.
Intensificazione e omologazione sono la base di questo sistema che è così potente a livello economico dal diventarlo anche a livello politico. E dal consentire a quest’industria di esternalizzare tutti i danni su ambiente, animali, lavoratori e clima. Per questo il prezzo di un etto di prosciutto non corrisponde minimamente al suo costo: si stima che per ogni dollaro di prodotto animale sul mercato, l’industria imponga alla società un costo aggiuntivo di circa due dollari, il doppio.
Nel libro fai un paragone tra l’industria petrolifera e quella della carne. Quali sono le somiglianze?
Le multinazionali della carne non sono poi così diverse da quelle del petrolio, per profitti, concentrazione della ricchezza, impatto ambientale, struttura delle società, globalizzazione dell’industria e attività di lobby. Ma c’è anche un’interdipendenza tra le due industrie: per esempio, i fertilizzanti chimici usati nell’agricoltura sono fortemente dipendenti dal petrolio. Ma pensiamo anche ai trasporti alimentati con fonti fossili, sui quali si basa il mercato della carne che è iperglobalizzato, o anche il modo in cui si producono gli imballaggi di plastica, che proviene dal petrolio.
Perché nel libro sostieni che l’industria della carne non sia un’eccezione ma la diretta conseguenza del sistema capitalistico?
Come il capitalismo, l’industria della carne tende a una crescita infinita, volta alla continua rigenerazione del capitale. La narrativa secondo la quale dobbiamo produrre sempre più cibo perché siamo sempre di più è falsa: in realtà produciamo già abbastanza cibo per 10 miliardi di persone ma ne buttiamo il 30% e abbiamo comunque più di 900 milioni di persone soffrono la fame. Non è un problema di produzione ma di distribuzione: un problema politico e sociale.
Un capitolo è dedicato alla carne sintetica, che non proviene da animali vivi ma da cellule staminali fatte sviluppare in laboratorio. Una carne che è più sostenibile, non è mortifera, è meno rischiosa per virus e risolverebbe il problema dell’impatto ambientale. Quali sono i motivi per i quali dubitare del suo successo?
Abbiamo davvero poco tempo per cambiare i nostri stili di vita ed è difficile pensare che l’intera popolazione mondiale passi a diete vegetariane o vegane. La carne sintetica risponde a un’esigenza che è sempre più forte, però ci sono dei caveat: prima di tutto, questa tecnologia ha ancora bisogno di svilupparsi per diventare accessibile ed economica. Poi c’è il problema di chi la deterrà: lo stiamo vedendo anche oggi con Facebook. Se all’inizio sembrava che i social network potessero creare maggiore democrazia, con il massacro dei Rohigya e molti altri eventi abbiamo visto che così non è.
Quindi penso che la carne sintetica possa essere una delle possibili risposte a un problema che però richiede una messa in discussione del tipo di società in cui stiamo vivendo.
Quest’intervista è andata in onda a Radio Popolare il 15 marzo 2023 per Il Giusto Clima