Agrivoltaico: quell’energia che migliora la resa dei campi
;L’agricoltura si è sempre servita di sistemi di ombreggiamento per migliorare la resa dei campi: l’agrivoltaico è una soluzione win-win, per produttività e lotta alla crisi climatica, secondo Alessandra Scognamiglio di ENEA

La principale critica che viene fatta agli impianti fotovoltaici a terra è che sottraggono spazio all’agricoltura. L’agrivoltaico, unione e sinergia tra fotovoltaico e agricoltura, sembra risolvere questo conflitto. Ma è davvero in grado di proporsi come alternativa attuabile su larga scala?
Ne abbiamo parlato a Il Giusto Clima con Alessandra Scognamiglio, Senior researcher presso ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile), coordinatrice della task force di ENEA sull’agrivoltaico sostenibile e presidente dell’associazione italiana per agrivoltaico sostenibile (AIAS), intervistata da Marianna Usuelli.
Professoressa, partiamo dalle basi: cos’è l’agrivoltaico e quando è nato?
L’agrivoltaico è nato negli anni ’80 ad opera di quello che all’epoca era il direttore del Fraunhofer Institute in Germania. Poi però questa idea non è mai stata messa in pratica per lungo tempo. Finché intorno al 2009-2010, quando sono stati bloccati i finanziamenti dei fotovoltaici su terreni agricoli e poi in generale l’installazione del fotovoltaico in area agricola, si è iniziato a cercare soluzioni innovative. Risale proprio a quel periodo il brevetto italiano di agrivoltaico, il primo a livello mondiale.
Oggi questa tecnologia vive un’ondata di interesse a livello internazionale e soprattutto in Italia che ha dedicato una misura del PNRR da 1,1 miliardi di euro proprio all’agrivoltaico, inteso come strumento di supporto alla resilienza del mondo agricolo rispetto alle minacce indotte dai cambiamenti climatici.
Secondo AIAS l’agrivoltaico può costituire un nuovo modello di business per un valore condiviso perché, rispetto al fotovoltaico a terra (la cui unica funzione è generare energia elettrica), consente non solo l’integrazione con l’agricoltura, ma anche il miglioramento della biodiversità dei suoli, della qualità delle colture e il risparmio idrico. Pensiamo all’Italia del sud dove il cambiamento climatico provoca temperature sempre più alte e dove l’ombreggiamento fa sì che le piante possano essere più idratate.
In alcuni casi l’agrivoltaico riduce la produzione agricola, in altri la aumenta. Ci può dare qualche numero dal nuovo studio pubblicato su Nature Reviews Clean Technology di cui lei è coautrice?
È importante sottolineare che non è l’agrivoltaico che di per sé migliora o peggiora le colture, ma l’ombreggiamento. L’agricoltura si è sempre servita di sistemi di protezione dal sole per alcune colture, come i limoneti della costiera amalfitana o il Tè Macha, che ha bisogno del 90% di ombreggiamento. Ad oggi, però, non c’è una risposta universale perché dipende molto anche dal sito di installazione e dalle condizioni microclimatiche.
Il nostro studio conferma che l’agrivoltaico è benefico come strumento di resilienza, ma che servono anche ulteriori ricerche proprio per questo motivo. Sarebbe perfetto se disponessimo di un catalogo nel quale, per ogni coltura ad ogni latitudine, sapessimo la percentuale di ombreggiamento da utilizzare. Ci stiamo lavorando e speriamo di ottenerlo grazie alla raccolta dei dati ottenuta dai circa 700 impianti che saranno realizzati grazie ai fondi del PNRR.
Che dati abbiamo sull’agrivoltaico in Italia?
Abbiamo dei dati storici su una sequenza di 10-15 anni, grazie ad alcuni imprenditori pionieri che si sono affiancati agli enti di ricerca. Per esempio, c’è un dato interessante sul pomodoro in Pianura Padana: nella configurazione standard adottata per la migliore resa energetica c’è un miglioramento di produzione agricola del 14%, ma si arriva oltre il 40% nel caso in cui l’ombreggiamento sia adattato all’esigenza della coltura (tramite inseguitori solari). Sembra strano per una pianta come il pomodoro, ma ormai gli sbalzi di temperatura e i picchi di calore sono talmente frequenti da bloccare spesso la fotosintesi. Lo stesso avviene per la vite in Puglia dove l’ombreggiamento migliora la resa e produce un vino più leggero, con grado zuccherino e alcolico più basso.
Quali sono i costi rispetto agli impianti a terra tradizionali?
Un recente studio di Althesys commissionato da AIAS ha stimato il costo del fotovoltaico in circa 50 euro per megawattora, mentre l’agrivoltaico nella configurazione elevata (quella attualmente finanziata dal PNRR) si attesta tra 57 e 70 euro. Tuttavia, all’agrivoltaico si associano circa 17 euro per megawattora di esternalità positiva, quindi il costo reale è quasi paragonabile, ma con maggiori benefici ambientali e sociali.
Si parla spesso di “consumo di suolo” legato al fotovoltaico a terra. Ma è corretto?
Il fotovoltaico a terra ha un uso reversibile del suolo, quindi chiaramente è ben diverso rispetto al consumo di suolo dovuto a un edificio. È interessante notare che nell’ultimo rapporto sul consumo di suolo, l’ISPRA cita gli impianti agrivoltaici come un esempio virtuoso di economia circolare e diversificazione del reddito agricolo.
Quindi quando si parla di impianti fotovoltaici a terra si potrebbe avere il dubbio, visto che quell’area – seppure non sia stata cementificata – non è più coltivabile. Ma nel caso dell’agrivoltaico, invece, non solo non c’è consumo del suolo, ma si tratta di un uso virtuoso: è come se venisse utilizzato due volte, sia per la produzione di energia sia per la produzione agricola.
Ascolta l’intervista completa a minuto 21 del podcast de Il Giusto Clima (puntata del 26 novembre).


